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Mi si è allargato il giornale: ora è social

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È in quel momento lì che intuisci che sei nel bel mezzo di una rivoluzione. Nell’attimo esatto in cui a una domanda innocua, di quelle che si fanno per scaldare l’atmosfera, la risposta ti lascia, per un secondo, senza fiato. «Quale sarà il volto delle notizie, tra 5 anni?», era la domanda. «Non potrei nemmeno tirare a indovinare», hanno risposto Andy Mitchell prima e Madhav Chinnappa qualche ora dopo. «Cinque anni sono un tempo lunghissimo».

Ora fermatevi, e considerate l’oggetto che avete tra le mani. Per decine di anni, l’industria che fa nascere un giornale ha prosperato uguale a se stessa. I primi apparvero in Europa nel XVII secolo. Erano diversi, certo. Ma i pilastri che li reggevano erano lì: supporto (la carta), tempo (la periodicità), modello economico (notizie a pagamento). Sono cambiati formati, colori, distribuzione, pubblicità: ma il campo da gioco era quello. Per stravolgerne i confini serviva una forza gigantesca: ed è arrivata. Mathew Ingram, giornalista di «Fortune», lo spiega così: «La distribuzione delle notizie non è più sotto il controllo degli editori. E non c’è ancora un modello che garantisca la sostenibilità dei giornali come li abbiamo conosciuti». Il responsabile è uno: internet. Di più: i dispositivi mobili.

Il «New York Times» regala centinaia di copie alla Columbia University. È bastato spostarle di qualche metro dall’entrata perché ne rimanessero a decine, ogni giorno. «Lo leggo online», spiegano gli studenti, smartphone in pugno. Per loro questo passaggio pare naturale. È avvenuto a una velocità spaventosa, invece. E prosegue così rapido che persino il direttore news di Facebook (Mitchell) e quello di Google (Chinnappa) non fanno previsioni. Il campo di battaglia è l’oggi, il lungo termine è per gli indovini, il domani è una professione di fede. Intorno ci sono facce nuove: fino a ieri sembravano impegnate in tutt’altro, ora si muovono sul terreno che credevi tuo. Quello che fanno è la rivoluzione.

Prendete Google, ad esempio. Una società nata intorno a un motore di ricerca,  che ora produce (tra l’altro) sistemi operativi (Android), browser (Chrome), servizi email (Gmail), cartine (Maps). Guadagna (molto) vendendo spazi pubblicitari: e forse il suo rivale più preoccupante è Amazon, un sito di e-commerce.

Gli editori di mezzo mondo l’hanno eletta a nemico per «Google News»: un aggregatore di notizie. Google non le scrive: raccoglie link, guida i lettori verso i siti dei media. «E non ci vendiamo nemmeno della pubblicità, lì», spiega Chinnappa. Le proteste degli editori sono state fortissime: tanto che il sito ha chiuso, in Spagna. Dopo la chiusura, però, è successa una cosa significativa: i giornali hanno visto crollare il traffico. E ora più di uno vorrebbe riaprirlo, «Google News».

Chinnappa spiega che il rapporto della sua azienda con gli editori vuole essere di piena collaborazione. «Abbiamo idee per aiutare il business degli editori. E vogliamo che attraverso Google i lettori trovino notizie di qualità». Ma le variabili interessanti, per la rivoluzione delle news secondo Google, sono anche altre. Il tempo e lo spazio, ad esempio. «I dispositivi indossabili, dagli smartphone agli smartwatch, permetteranno di ricevere notizie quando e dove sono più rilevanti». Ti avvicini a un museo? Ecco recensioni e consigli. Stai per uscire? Arrivano dritte sul traffico. «E questi contenuti li forniscono gli editori». La piega potenzialmente inquietante è la raccolta dei dati dei lettori. «Ma su questo c’è trasparenza. E ciò su cui dialoghiamo con gli editori è: quali dati vi servono per dare informazioni rilevanti ai potenziali lettori?».

Anche Facebook, in teoria, ha poco da spartire con giornali e cronisti. Ma la rete nata per farci rimanere in contatto con gli amici oggi ospita 1,4 miliardi di esseri umani. E una quota sempre maggiore di quegli esseri umani apre Facebook al risveglio, e non lo chiude mai: perché ci può fare di tutto, dalle telefonate ai messaggi, alla condivisione di foto e — eccoci — notizie.  La piattaforma è la prima fonte di informazione per la maggioranza dei giovani americani: e non solo.

Giorni fa, Facebook ha dato il via a un sistema che permette agli utenti di leggere articoli senza lasciare la sua app. Non era mai successo — non su questa scala, almeno — che chi produce news le distribuisca su mezzi di cui non ha controllo. Le condizioni garantite agli editori sono, per un osservatore come il docente alla City University di New York Jeff Jarvis, «un buon primo passo». Ma i timori non sono svaniti. A determinare quali contenuti appaiono sulle timeline è un algoritmo, le cui chiavi sono nelle mani di Facebook. Le preoccupazioni sono quelle per un potere orwelliano: un controllo su quali notizie mostrare, quando, e a chi. Senza contare le pressioni di regimi autoritari. «Ognuno vede, e vedrà, notizie legate ai “segnali” che arrivano dai suoi amici e familiari», prova a rassicurare Mitchell. «Il punto è questo: gli utenti iniziano discussioni su notizie di qualità. E noi vogliamo fare in modo che l’esperienza di lettura di quelle notizie sia la più ricca e rapida possibile».

Il timore di molti analisti è che l’obiettivo del social network sia «contenere» tutte le funzioni del web — di diventare internet. A discapito anche dei giornali. «Ma perché dovremmo danneggiare chi produce contenuti? Chi mette pezzi su Fb vede i contatti salire: e quei contatti sono monetizzabili». Mitchell ha abbonamenti a 5 tra quotidiani e riviste cartacei. Spariranno? «A me piacciono molto. Ma se la domanda è sulla sostenibilità di quel modello di business, la risposta è: non so».

Non ci sono rivoluzioni senza che cadano monumenti. E per i giornali, non c’è niente di più totemico della prima pagina. Ogni giorno, da decenni, tutti i quotidiani spendono ore nel calibrarla. Lì dentro c’è la fotografia del mondo, visto da quella testata. Il caos del reale viene ricomposto in un ordine fatto di moduli, punti tipografici, colonne. Un paio di settimane fa il direttore del «New York Times» ha trasformato la riunione delle 4 per la «Page One» in una programmazione di servizi per il digitale: «È lì che più della metà degli utenti ci legge, oggi». «La prima pagina non è più importante di quel che mettiamo in rete», ha detto il direttore del «Washington Post», Marty Baron. «È importante: ma non più importante».

Non è solo una questione di prime pagine di carta. Anche le home page sono porte d’accesso sempre meno usate. La sfida di ogni sito, ora, è quella di far intuire dentro ogni link trovato su Google o Facebook il valore aggiunto di un universo di notizie gerarchicamente ordinate. Era scontato. Fino all’inizio della rivoluzione.

I nuovi arrivati non hanno solo i volti di Facebook e Google, che pure controllano il 55% del mercato mondiale della pubblicità su mobile, che vale 42,6 miliardi di dollari. Mezzo miliardo di tweet vengono spediti ogni giorno, e una fetta consistente è composta da notizie scritte dai giornali. Snapchat, un social che fa della transitorietà il suo punto di forza, ha stretto accordi con alcuni editori americani. E poi ci sono Instagram e WhatsApp (di Facebook) e YouTube (di Google). «Davvero abbiamo pensato fino ad ora che non stessero nel nostro stesso campo di gioco?», dice a «la Lettura» Emily Bell, docente di giornalismo a Columbia. Ora è chiaro a tutti. E in questo nuovo mondo, anche le voci si possono moltiplicare. Una ex startup come BuzzFeed gioca sullo stesso piano di testate storiche come «New York Times» o Bbc. Al fondo ideato da Google per progetti innovativi nel campo delle news — 150 milioni di euro in 3 anni — possono tentare di aderire tutti, dal blogger al «Financial Times».

Il futuro delle notizie potrebbe persino essere più plurale di quello attuale. La verità è che nessuno può prevederlo. Ma i termini della sfida sono chiari. «Le forze in azione — ha detto pochi giorni fa Marty Baron — non si curano di quanto facilmente ci adatteremo al cambiamento. La trasformazione avverrà in ogni caso. C’è una sola scelta realistica da compiere: fare quel che dobbiamo per adattarci, e nella migliore delle ipotesi prosperare. O non farlo: e così staremo consapevolmente decidendo di fallire. Chi resisterà al cambiamento sarà messo da parte e dimenticato».

Davide Casati

© RIPRODUZIONE RISERVATA


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